Lo schiavismo non è solo in Bangladesh 

Le storie di Paola e Mihail appalesano come l’emergenza lavorativa e valoriale produca storture
Paola Clemente era di San Giorgio Jonico. Mihai Istoc era rumeno, il suo cadavere è stato trovato in una discarica abusiva di rifiuti nell’ astigiano. I due ovviamente non si conoscevano ma rappresentano in un modo assai tragico la situazione del lavoro in Italia. Una situazione di margine.

Sveglia puntata all’alba, nella speranza di essere reclutato al “mercato delle braccia” da un caporale per una paga non superiore ai trenta, quaranta euro al giorno. Senza orari, dieci, dodici ore filate. Senza regole, al nero. E senza la certezza di essere pagati. Abitudini vigenti in tutto lo Stivale, tanto al Nord quanto al Sud: il soldo pattuito viene pagato a fine lavoro per due terzi. Poi il datore scompare, si nega alle telefonate. Chi insiste, viene allontanato a spinte dai cantieri, minacciato con la pistola, oppure picchiato. E se per caso hai un malore oppure un infortunio devi stare zitto. E pregare che tu non abbia bisogno di un ospedale, perché altrimenti diventi un problema pesantissimo per i padroncini per cui lavori. E proprio in questo modo trova la morte Mihail Istoc, quarantacinquenne con una moglie e due figli che l’attendevano in Romania.

Lavorava in nero e l’incidente avrebbe creato solo “rogne”. Ecco perché è stato abbandonato come un rifiuto dai due titolari dell’ impresa dove lavorava
Paola Clemente, invece ritornata alle cronache dopo la sentenza di alcuni giorni fa: era una donna di 45 anni morta di fatica mentre lavorava, ai limiti dello schiavismo, all’ancinellatura dell’uva sotto un tendone nelle campagne pugliesi.  

Lavorava 12 ore per 30 euro giornalieri e non sempre pagati. Infatti quello che più colpisce delle 302 pagine del provvedimento restrittivo è la straziante confessione di alcune braccianti, sfruttate e sottopagate dall’agenzia interinale. Una donna racconta agli inquirenti che un giorno, sul pullman, nel momento in cui venivano distribuite le buste paga, “alcune donne si sono lamentate dei giorni mancanti e G. ha detto che noi lo sapevamo, quindi non dovevamo lamentarci. Nessuna ha più parlato, anche perché si ha paura di perdere il lavoro. Anch’io adesso ho paura di perdere il lavoro e di essere chiamata infame. Ho un mutuo da pagare, mio marito lavora da poco, mentre prima stava in cassa integrazione. Dovete capire che il lavoro qui non c’è e che perderlo è una tragedia. Quindi, se molte di noi hanno paura di parlare è comprensibile”. Un’altra fa mettere a verbale al pm Alessandro Pesce che “se fai la guerra perdi, perché il giorno dopo non vai più a lavorare”. E una sua collega aggiunge: “Per noi 32 euro al giorno sono necessari per sopravvivere”. Testimonianze coraggiose che commuovono il procuratore tranese Francesco Giannella: “Nell’indagine è emerso – spiega – che il caporalato moderno si è concretizzato esclusivamente attraverso l’intermediazione di un’agenzia interinale. E’ una forma più moderna e più tecnologica rispetto a quella del passato”. Ma il motore che lo alimenta è sempre lo stesso: “L’assoluta povertà delle braccianti che vedono nei caporali i loro benefattori”, anche se questi le sorvegliano pure quando vanno in bagno e bacchettano se non lavorano bene”.
Le storie di Paola e Mihail sono sicuramente estreme però appalesano come l’emergenza lavorativa e valoriale produca storture. Casi che immaginiamo possano accadere solo nel lontano Bangladesh e che invece, purtroppo, sono anche sotto casa nostra.
Ruggiero Delvecchio

 

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